Agrifood Monitor: innovazione strada obbligata per rendere green la competitività

Di
Redazione
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16 Febbraio 2021

Il 45% degli italiani percepisce ancora la tradizione in ambito alimentare come sinonimo di qualità ma il 54% degli intervistati di fronte ai cambiamenti climatici e all’esigenza di attività più sostenibili ritiene fondamentale un salto di qualità sul fronte tecnologico con investimenti sul fronte dell’innovazione. È quanto emerge dalla survey realizzata da Nomisma in partnership con Crif e presentata questa mattina nel corso del V Forum Agrifood Monitor che ha anche mostrato come molte convinzioni (errate) degli italiani sulle innovazioni in agricoltura siano legate a una scarsa conoscenza, tanto da venire “ribaltate” una volta spiegate le funzioni di tali miglioramenti tecnologici.

Come è di grande importanza tratteggiare quelli che sono i più probabili tra gli scenari futuri, a partire dalla scarsità di cibo (entro il 2050 ne occorrerà tra il 60% e 70% in più di quanto ne viene prodotto oggi) e di terra (sempre nel 2050 ogni essere umano avrà a disposizione 0,1 ettari di superficie coltivabile contro i 0,4 ettari del 1960) e in un contesto di clima “impazzito” (negli ultimi quarant’anni, il numero di disastri naturali nel mondo è più che triplicato).

D’altro canto è proprio in quest’ottica che la Commissione Ue ha lanciato il Green Deal e le sottostanti strategie “From Farm to Fork” e “Biodiversity” individuando obiettivi ambiziosi che andranno ad incidere sensibilmente sulle attività agricole ed alimentari.

«Gli scenari della scarsità alimentare, delle risorse naturali e dei cambiamenti climatici ci sembrano fantascienza ma in realtà ci riguardano da vicino – spiega il responsabile Agroalimentare di Nomisma, Denis Pantini – soprattutto per le implicazioni che generano sul mercato dei prodotti agricoli. Non dobbiamo dimenticare che, per molte derrate primarie, l’Italia non è autosufficiente – negli ultimi dieci anni il nostro import agricolo è cresciuto del 55% – e che la tenuta socioeconomica dei nostri territori è legata ad una filiera, come quella agroalimentare, che negli stessi anni ha aumentato il proprio posizionamento internazionale grazie ad una crescita dell’80% nell’export dei propri prodotti».

Se quindi non si può prescindere da competitività e produttività, al tempo stesso non possiamo esimerci dall’essere sostenibili, e pertanto quella dell’innovazione appare proprio come una strada obbligata . A cominciare da strumenti come le tecnologie di evoluzione assistita (miglioramento genetico) o di precision farming.

«La stessa agricoltura 4.0 – hanno spiegato ad Agrifood Monitor – pur essendo ancora poco diffusa tra le aziende italiane, ove applicata permette non solo di recuperare efficienza grazie a risparmi nei costi di produzione che, per colture estensive come il frumento tenero, arrivano fino al 15% ad ettaro, ma anche una maggiore produttività che può arrivare ad un +10%. Il che si traduce non solo in un incremento di redditività per l’agricoltore (sostenibilità economica) ma anche in un minor impatto ambientale, grazie all’uso di agrofarmaci, fertilizzanti e acqua in base alle reali necessità delle piante coltivate (sostenibilità ambientale). Purtroppo, la ridotta diffusione di tali innovazioni tecnologiche tra le aziende italiane deriva da diversi gap strutturali, comuni all’adozione di questo tipo di tecnologia. Un recente studio della Commissione Europea ha infatti messo in luce come tra le aziende europee, il primo ostacolo all’utilizzo dell’agricoltura di precisione (e 4.0) sono le ridotte dimensioni aziendali (lo evidenzia il 26% delle imprese intervistate), il costo di accesso ma anche la ridotta conoscenza di tali tecnologie. Ormai superfluo ricordare, a tale proposito, come l’agricoltura italiana presenti una dimensione media poderale di 11 ettari contro i 17 della media Ue, una formazione agraria completa che riguarda solo il 6% dei conduttori contro il 9% dell’Ue e un accesso a internet in aree rurali che interessa l’82% delle famiglie italiane residenti in tali zone rispetto alla media europea dell’86%».